20. Dicembre 2014 · Commenti disabilitati su Petizione Internazionale a favore dell’approccio clinico dell’autismo · Categorie:Psicoanalisi · Tag:, ,

Il Cortile aderisce:
In questi giorni sulla stampa italiana e francese si e’ sviluppata una campagna che mira a escludere la psicoanalisi dalla presa in carico di bambini e adolescenti autistici. Una campagna diffamatoria non certo nuova nei confronti della psicoanalisi, ma in questo caso ancora pi� odiosa in quanto non tiene conto del lavoro che in questo settore e’ stato ed e’ fatto da operatori del settore che hanno come punto di riferimento gli strumenti psicoanalitici.
Il “vento innovativo” che si vuole appoggiare con questa operazione e’ quello di considerare l’approccio cognitivo-comportamentale come l’unico atto ad affrontare le problematiche dell’autismo, relegato nell’ambito del deficit, quindi trattabile escusivamente con tecniche che prediligono il versante educativo e riabilitativo.
Per chi come noi, operatori che da sempre ci occupiamo del disagio dell’infanzia, dell’adolescenza e che nel nostro lavoro hanno da sempre incluso i genitori, ci ribelliamo con fermezza a questa operazione che si ammanta di falso scientismo e che ha come supporto le case farmaceutiche, che tanto sponsorizzano l’uso dei farmaci anche in eta’ evolutiva.
Ci facciamo portavoci di due petizioni che in questi giorni circolano in Italia e in Francia con l’obiettivo di porre l’attenzione degli operatori, ma anche dell’opinione pubblica, su tali tematiche che ovviamente non riguardano soltanto chi ne e’ implicato in prima persona, ma l’intera societa’ nella sua visione del mondo.
Vogliamo concludere con le parole di Luisa Di Biagio, affetta dalla sindrome di Asperger (inclusa nello spettro autistico): “La mia vita e’ stata molto difficile. Ho avuto un’infanzia tremenda e un’adolescenza peggiore. Una volta adulta la situazione e’ precipitata. Come si colloca tutto questo in un’ottica ottimista?…Cambiare la coscienza sociale e’ la sola strada per impedire che storie come la mia si ripetano all’infinito…Il mio sogno e’ che, anche per loro, un domani, possa esserci un ruolo nel mondo a prescindere dall’effettiva “utilita’” della loro competenza. Lo scopo di tutti coloro che sono coinvolti, per vari motivi nell’attuazione di questo storico cambiamento e’ quello di comunicare al mondo che le persone sono altro dall’apparenza, che ogni persona ha il diritto di rimanere se stessa pur acquisendo gli strumenti di base che ne favoriscano l’inserimento sociale e una dignitosa qualita’ della vita, e soprattutto che “educare” non vuol dire snaturare e piegare…L’aspetto meraviglioso di questa necessita’ di presa di coscienza del valore di ogni persona per quello che e’, credo sia espressa in modo brillante da N., un ragazzino Asperger di 11 anni in questo interessantissimo scambio con la sua mamma che si preoccupava di assicurarsi il suo benessere: “Non pensare ad alta voce, senno’ ti prendono per un tipo strano…”. “Ma io lo sono, mamma!””.
Il nostro compito e’ permettere che la “stranezza” di ciascuno abbia un posto nel mondo.

l’equipe del Consultorio di psicoananlisi applicata – Il Cortile

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20. Dicembre 2014 · Commenti disabilitati su L’inconscio di Freud e di Lacan · Categorie:Psicoanalisi · Tag:, , ,

Si pensa che l’inconscio sia un luogo misterioso, una sorta di soffitta o di cantina in cui sono ammassati, da tempi mitici, dei reperti più o meno preziosi che riguardano la storia e la vita di una persona, e lo psicoanalista sarebbe il detentore della chiave per aprirne le porte e incominciare a rovistarvi dentro.

Mi è capitato di ascoltare una donna a cui lo psicoterapeuta aveva detto: “Ora lei immagini di essere una libreria piena di libri. Lei verrà in terapia e io ne smonterò gli scaffali per rimontarla da zero e poi disporre i libri in modo diverso”. La donna in questione, un soggetto fragile e molto sofferente, di fronte a simile “programma”, è precipitata in un’angoscia devastante. Affranta e attonita di fronte alla possibile rovina di ciò che bene o male aveva edificato nel corso della propria vita e serviva a sostenerla, non poteva neanche immaginare che la sua metaforica libreria, con i suoi libri, con i titoli disposti secondo il suo ordine, venisse smontata dallo psicoterapeuta.

L’inconscio non è un luogo misterioso ma una costruzione del soggetto che non è lecito abbattere in nome di un’idea – tutta del terapeuta – di giusto o sbagliato, di sano o patologico, ossia a partire dal suo di ordine, dal suo di “programma”. Ci vuole rispetto del “programma” di ciascuno affinché egli, paziente che soffre, possa coglierne la trama e capirci qualcosa.

L’inconscio di Freud è fatto di parole che s’incatenano l’una all’altra e che si possono ascoltare. Freud lo ha scoperto ascoltando le parole delle sue pazienti isteriche: Anna O., Dora, la giovane omosessuale, e dai suoi pazienti: l’uomo dei topi, l’uomo dei lupi, il presidente Schreber, nonché dai meravigliosi discorsi di un bambino di quattro anni: il piccolo Hans, solo per citare i casi più famosi. Le donne, gli uomini e i bambini gli hanno rivelato l’importanza degli effetti della parola sull’essere umano, sul corpo dell’essere umano. Freud non solo ha reperito l’inconscio negli inciampi della parola: lapsus, dimenticanze, motti di spirito, ma anche nei sogni che ascoltava con un ascolto particolare: come se leggesse un testo, un testo magari confuso, insensato, con dei buchi nella narrazione e dove tempo e luogo non rispettano la logica comune. L’inconscio è senza tempo, diceva Freud. Lacan dirà che ha bisogno di tempo per dispiegarsi. Freud si è accorto che i suoi pazienti o le sue pazienti, parlando, avevano una remissione dei sintomi, come per esempio la sparizione di una paralisi del braccio o il ritorno delle mestruazioni nel caso di una “gravidanza isterica”.

A qualcuno sarà forse capitato di vedere delle raffigurazioni di donne isteriche di fine ottocento, internate dell’Ospedale della Salpêtrière a Parigi, con i corpi arcuati in pose acrobatiche, i volti contratti in strane smorfie o rapiti in espressioni di estasi. Quello che veniva definito l’”arco isterico” può dare un’idea dell’effetto della parola sul corpo, una parola che prima di Freud non era presa in considerazione, né ascoltata, tanto più se era la parola di una donna. Le isteriche, infatti, erano considerate delle pazze da placare con metodi di contenzione fisici e/o farmacologici secondo l’usanza del tempo.

Oggi l’inconscio, per molti, è un concetto bandito, come per esempio accade nelle facoltà di psicologia, là dove altri modi, solo in apparenza dedicati all’ascolto, vengono considerati adatti alla cura, anche se, in realtà, non fanno che legare e contenere, se non i corpi, la parola di chi soffre e cerca aiuto. Sono di moda le ricette comportamentali fatte di consegne per far passare l’attacco di panico, o la depressione, o lo stato d’agitazione di un bambino, o la fobia di un adulto. I sintomi non sono considerati come se parlassero del soggetto e avessero una causa inconscia da ricercare attraverso la messa in moto dell’inconscio, ma vengono fatti dipendere dalla cattiva volontà di chi ne è affetto, come se la volontà bastasse a guarire e si restasse sordi a quelle parole che tanto spesso ascoltiamo: “è qualcosa di più forte di me, è qualcosa che mi supera”.

Una paziente raccontava che lo psicoterapeuta, le aveva prospettato un programma comportamentale contro la fobia dei topi anticipandole che l’ultima prova che avrebbe dovuto sostenere sarebbe stata quella di accarezzare un ratto. Erano elusi non solo l’ascolto della parola del soggetto, ma anche la funzione che la fobia ricopre nell’economia del rapporto di quel soggetto con la pulsione. Era bandita qualsiasi possibilità di ricercare la causa inconscia di quel che faceva soffrire la paziente. L’inconscio è bandito anche presso gli psicoanalisti. Una fiction americana di grande successo, il cui modello è stato ripreso anche in Italia, “In Treatment”, è un esempio di così detta psicoanalisi dove la funzione dell’inconscio come concetto fondamentale nella cura psicoanalitica è completamente assente, al punto che non si capisce più chi sia il paziente e chi il terapeuta… il discorso si svolge sullo stesso piano di una bella chiacchierata con una persona amica o giù di lì…

L’inconscio di Freud, come diceva Lacan, non è nemmeno la caverna di cui sappiamo che Platone guidava le persone verso l’uscita. L’inconscio ha un ingresso che può far pensare a quello della caverna, ma è un ingresso particolare: si apre e si chiude all’istante e, affinché si apra per un attimo, non è da fuori che si bussa ma da dentro, dall’interno. Che cosa fa l’analista, allora? Fa due cose: tende l’orecchio alla chiamata dell’inconscio e fa in modo che non si richiuda. L’analista non è come Platone, non accompagna all’uscita, ma fa in modo che l’inconscio continui a pulsare. Per farlo deve essere passato egli stesso, nella sua formazione, per l’esperienza di una analisi personale in cui abbia potuto delucidare il proprio inconscio, altrimenti si rifà “in treatment”.

Occorre un ascolto attento alle parole del paziente tale da permettergli di produrre il suo di sapere, un sapere sconosciuto che lo sorprenderà e lo metterà al lavoro, per esempio producendo un sogno, un lapsus, una dimenticanza, quelle “formazioni dell’inconscio” che gli permetteranno di riscrivere la trama della sua storia, di ricordare e annodare passaggi cruciali della sua vita in cui qualcosa dell’insopportabile si è fissato producendo sintomi.

Niente soffitta, niente cantina e niente libreria da smontare, forse una caverna, sì, purché si tenga conto che la porta tende a richiudersi. Non sempre, infatti, si vuole sapere ciò che potrebbe intessersi in quella trama, ossia l’impossibile, l’indicibile, l’insopportabile che le parole veicolano. L’insopportabile – la pulsione per Freud, il “reale”, o il “godimento” per Lacan -, proprio perché di tessitura si tratta, appare nei buchi della trama stessa, nelle rotture, sui bordi.

Il godimento, quella cosa che fa male e fa bene al tempo stesso, si appunta in luoghi particolari: occhio, bocca, orecchio, ano, genitali, ecc…, nella forma di un oggetto – qui sì che possiamo parlare di oggetto -, un oggetto privilegiato per ciascun essere umano che può prendere il nome di sguardo, voce, seno, feci, ecc… Intorno a questi oggetti si cristallizza il particolare modo di ciascuno di godere, di gestire la pulsione nel rapporto con l’altro, con il desiderio, sia nel sesso sia nell’amore.

Per definire l’inconscio possiamo, infatti, usare anche un’altra metafora di Lacan, quella della vescica, ossia l’inconscio come un bordo che si dilata e si restringe, si apre e si chiude, come una bocca che succhia, come un organo che pulsa, come un orifizio del corpo. Un’altra metafora, invece, questa volta non di Lacan, potrebbe essere quella delle antenne della lumaca, animaletto che per la sua consistenza evoca la mucosa degli orifizi. Appena le tocchiamo con un dito, le piccole antenne si ritraggono e un attimo dopo rispuntano fuori. Le nostre dita sono per la lumaca quello che per l’essere umano è l’Altro, con la A maiuscola, l’Altro del linguaggio al quale attribuiamo il potere di darci il senso delle cose e la garanzia delle nostre azioni. L’incontro con l’Altro lascia un segno, le parole dell’Altro – genitori in primo luogo -, che siano parole d’amore, o di odio, di indifferenza o intessute di silenzio, lasciano il segno. Da queste parole origina la pulsazione dell’inconscio.

Lacan ha anche detto che l’inconscio ha la stessa struttura del linguaggio, ed evidenziava così quel che aveva scoperto Freud con i lapsus, il sogno, ecc… L’inconscio è congiunzione ma anche taglio, taglio vivo tra il soggetto e l’Altro, e, come per l’effetto di ogni taglio, il soggetto incontra una perdita e di conseguenza gli resta una cicatrice che chiamiamo il “rimosso”. Anche la lumaca perde l’umore vischioso, quando incontra le nostre dita.

La perdita causata dall’incontro con l’Altro segna l’entrata dell’essere umano nel linguaggio. Ma che cosa si perde? Si è divisi dall’incontro con il linguaggio e allora si perde l’illusione della completezza di cui la simbiosi della relazione madre/bambino è il prototipo; si perde l’illusione di un essere a tutto tondo. L’essere parlante, l’essere umano è questa perdita. Non si dice soggetto per differenziarlo dall’oggetto, o per conferirgli una nobiltà che non avrebbe in quanto semplice oggetto, ma per evidenziare come l’essere umano sia assoggettato al linguaggio e in quanto tale sia un soggetto dell’inconscio.

L’inconscio, dunque, si situa a livello del linguaggio, ha struttura di linguaggio e in quanto struttura, include dei buchi. Perfetta e logica, tale struttura lascia spazio all’invenzione di ciascuno a partire da ciò che non si decifra, a partire da ciò che nel sintomo rimane senza interpretazione, a partire da ciò che non sappiamo di sapere.

A noi, oggi più che mai, proprio nel rispetto della singolarità di ciascuno, senza imposizioni e pregiudizi su ciò che è bene o ciò che è male, interessa l’inconscio con Freud e con Lacan, ci interessa la sua funzione che vogliamo mantenere viva per chi viene a chiedere ascolto al Cortile.

 

Céline Menghi

20. Dicembre 2014 · Commenti disabilitati su La parola svilita/la vergogna · Categorie:Psicoanalisi · Tag:

L’ascolto
Oggi la parola è sempre più svuotata e priva di valore. La parola data conta sempre di meno. Nei luoghi istituzionali o presso chi, per primo, dovrebbe dare giusto peso e dignità alla parola pronunciata, essa, non appena pronunciata, è già svilita e non giunge a farsi atto, ovvero atto di parola che sottende la fede e l’impegno di chi l’ha pronunciata. Si gioca con questa parola svilita, la si traveste con il lapsus, con la sbadataggine, la “battuta”(!), senza voler sapere che del lapsus, della battuta e della sbadataggine siamo sempre responsabili, uno per uno. L’essere responsabili fa parte della dignità dell’essere umano e del rispetto che merita.

Jacques Lacan nel 1970, rivolto agli studenti dell’Università di Vincennes, curiosi, avversi, provocatori, futuri analisti, sé dicenti rivoluzionari, futuri professori, architetti, intellettuali, insomma giovani d’ogni risma e talento che avrebbero fatto la storia di oggi, diceva che c’era un notevole vantaggio “all’aver vergogna […] ed è questo che la psicoanalisi scopre” . La psicoanalisi, l’etica della psicoanalisi, pone la vergogna come qualcosa d’importante ma anche come un effetto che si ottiene raramente. Raramente si prova vergogna. Oggi è più che mai sensibile che pochi sono coloro che si vergognano, quando ne avrebbero di che. Eppure, la vergogna è proprio l’effetto del fatto che l’essere umano parla, che è soggetto al linguaggio .

Che cosa intendeva lo psicoanalista francese rivolto a questi giovani che lo interrogavano e lo provocavano al contempo? In sostanza, li avvertiva dell’irresponsabilità dell’essere umano rispetto a un discorso che non contempli un certo fallimento. Il fallimento di cui parla Lacan è il fallimento in cui si incorre ogni volta che si parla. La parola non è un fatto puramente intellettuale o di sola comunicazione ma è in presa diretta con il corpo, ovvero si articola con quella che Freud ha chiamato pulsione. Cosa c’entra il fallimento, allora?

Il fallimento, come dimostra la clinica e come dimostra semplicemente la vita di donne, di uomini e di bambini, consiste nell’impossibilità della parola, del linguaggio, di afferrare tutto, di simbolizzare tutto. Qualcosa dell’ordine della pulsione rimane fuori e ce ne accorgiamo ogni volta che il corpo fa dei sintomi o ricerca delle modalità di soddisfazione che sono apertamente in contrasto con il piacere, con la vita stessa, con l’equilibrio e con l’armonia. Linguaggio e parola non riescono né a dire tutto, né a controllare tutto, né a pacificare tutti gli affetti, ma sono pur sempre lo strumento, la via, attraverso cui l’inconscio si manifesta e conduce il soggetto ad avvicinare il più possibile ciò che gli fa male, ciò che non funziona.

La responsabilità
Secondo l’etica della psicoanalisi, di questo qualcosa che rimane fuori e che il linguaggio non imbriglia dobbiamo assumerci la responsabilità come soggetti parlanti. Ecco che il sentimento della vergogna ha un risvolto positivo e costruttivo, quando si manifesta, non per una questione di morale comune, convenzionale, bensì perché esprime e non ricopre o nega il rapporto del soggetto con ciò che non va, con ciò che fallisce, lo esprime nel solco dell’etica.

Lacan non parla di morale ma di etica del ben dire. Ben dire non vuole dire: dire tutto, perché, abbiamo detto, è impossibile dire tutto. Vuole dire: dire bene, perché, invece, è possibile dire bene. Dire bene vuole dire credere nell’inconscio, affidarsi alla catena inconscia, cosa che permette di avvicinare e toccare quel punto in cui l’essere umano, in quanto soggetto assolutamente unico e particolare, può mettere a fuoco la causa del suo malessere, la causa di ciò che lo ha portato fino a quel frangente così doloroso della sua vita. La causa di cui si tratta, oltre a essere interna e non esterna al soggetto, è fatta della stessa pasta di ciò che muove il soggetto, della stessa pasta di ciò che lo fa desiderare. Il ben dire conduce, dunque, a un rovesciamento tale per cui ciò che faceva male si rivela essere ciò che muove alla vita. Bisogna volerci arrivare.

La scommessa
Il valore che la psicoanalisi conferisce ancora alla parola dell’essere umano è inestimabile, di qualsiasi razza, paese, sesso biologico egli sia, e qualsiasi sia la sua scelta rispetto alla posizione che assume fronte all’altro del sesso, al suo modo di godere, e qualsiasi sia la sua scelta di fede religiosa. La scommessa della psicoanalisi è di operare tramite la parola perché l’essere umano possa riconoscere, venire a patti e trarre soddisfazione dalla propria singolarità sintomatica in un modo più vivibile e meno dannoso o doloroso di quanto non sia stato in altri momenti della sua vita, per sé e per gli altri.

Uno spazio di parola
Tutti, a un dato momento, parliamo e la parola, anche se non è dichiarato, richiesto, deciso da chi la pronuncia, è sempre rivolta all’altro. Si parla perché da qualche parte c’è l’altro, vicino o lontano. A partire dall’insegnamento che ci viene dalla psicoanalisi, in particolare da Sigmund Freud e da Jacques Lacan, l’ascolto ha uno statuto speciale, certamente negli studi privati, ma per noi in ogni luogo in cui il soggetto si rivolge a uno psicoanalista. Si tratta di un ascolto che fa spazio alla parola piena, non vuota, ovvero non la semplice chiacchiera. Nella chiacchiera si ripercuote la confusione tra chi parla e chi ascolta, una confusione immaginaria, dove non bastano i ruoli – io psicoterapeuta, tu paziente – a mantenere la giusta distanza o asimmetria. Perché ambedue non siano ridotti sullo stesso piano e, dai due lati la paura giochi la partita, a volte l’imbarazzo e, di fondo, sempre, l’angoscia, bisogna che chi ascolta faccia appello a un terzo, un terzo che noi chiamiamo Altro, Altro del simbolico che permette la messa in moto dell’inconscio. In tale spazio il dire o il non voler dire assume un altro statuto e anche il silenzio è contemplato. Il silenzio parla, se non è subito ricoperto. Il mutismo è parlante, anche se non risuona.

Le parole, più spesso di quanto non si creda, possono uscire dal discorso comune, dai binari della così detta normalità, pur essendo parole di chi, come tutti, è nel linguaggio. Non basta dire che tutti siamo immersi nel linguaggio, poiché l’ordine che il linguaggio stesso conferisce all’essere umano, l’ordine simbolico, non ha sempre la stessa presa per tutti. E’ importante, dunque, che l’ascolto sia avvertito, allenato a tener conto e a cogliere, senza pregiudizio, sfumature e differenze da cui dipendono modi di essere e di vivere del soggetto, oggi detti comportamenti.

I comportamenti non sono che fenomeni, punte di un iceberg, di qualcosa d’enigmatico e singolare che chiamiamo sintomo e che ha un significato, un senso e una funzione differente per ciascun essere umano. Ognuno dovrà trovare la propria soluzione al sintomo a partire dal sintomo stesso, a partire da ciò che per lui non funziona.

La psicoanalisi applicata
Si tratta dell’applicazione della psicoanalisi al sociale di cui ormai da anni, non solo a Roma, ma in molte altre città d’Italia dove sorgono istituzioni o centri di ascolto orientati dal discorso analitico, possiamo riconoscere l’utilità e l’efficienza. Non si tratta dell’applicazione di un metodo o di un modello a partire dal quale ci mettiamo a interpretare ogni parola o discorso di chi si rivolge a noi. Assolutamente non è così. Non vogliamo incorrere nell’errore di dare senso a tutto né di dare un significato per forza compatibile con un quadro stabilito. Riconosciamo che la tentazione è forte, quando ci si trova fronte a situazioni di malessere che causano angoscia, compresa la nostra di operatori, di psicoterapeuti e psicoanalisti, ma non è questo cui miriamo, a noi interessa il soggetto, non la sua omologazione.

Crediamo nell’inconscio, ma credere nell’inconscio non è credere in una teoria dell’inconscio. Lacan metteva in guardia rispetto a simile deviazione, che definiva addirittura “buffonesca” e che ha condotto a certi abusi da parte degli stessi psicoanalisti, quando, per esempio, hanno pensato di applicare tale presunta teoria all’interpretazione dell’arte o all’interpretazione della vita dell’artista.
Credere nell’inconscio, diceva Lacan, significa credere in ciò che dell’inconscio può essere preso nel campo della pratica della psicoanalisi, nient’altro che questo . La pratica della psicoanalisi, lo abbiamo già detto, è una pratica della parola. Dell’inconscio può essere preso il sapere nascosto che ciascun essere umano possiede, un sapere che non sa di sapere. Ciò vuol dire che dietro le sue parole c’è dell’altro, tra le righe del suo discorso c’è dell’altro. Il sapere nascosto è proprio quello che sfugge, che scappa via, quello che il linguaggio non imbriglia e che non appare se non tra il lapsus, il sogno, la sbadataggine, l’atto mancato.

Le parole in presa diretta con il corpo, coniugano il piacere, il dolore, il misto di piacere e di dolore che fa compiere all’essere umano cose senza senso, cercare o perpetrare la violenza o intossicarsi o digiunare o abbuffarsi, perché “è più forte di me”. Ecco allora che è il non senso che interessa alla psicoanalisi, è al non senso e al fuori senso che si applica il discorso analitico, diversamente da quanto avviene in genere con l’elargizione di senso a tutto spiano molto di moda oggi nel campo della psicologia.

Nell’applicazione della psicoanalisi, noi analisti facciamo riferimento alla nostra esperienza di psicoanalisi personale in quanto ci permette di sostenere l’angoscia altrui perché abbiamo lavorato a lungo la nostra, cosa che ci permette di evitare di dare risposte immediate che impediscono al soggetto di elaborare, a partire dalla sua storia, una riflessione sul suo malessere. E’ così che ci poniamo nella posizione di condurre chi si rivolge a noi verso l’implicazione soggettiva che porta alla formulazione di una domanda che non è più semplicemente d’aiuto ma si volge in risposta, una risposta non più attesa dall’altro.

Céline Menghi

20. Dicembre 2014 · Commenti disabilitati su “E’ stata autorizzata la somministrazione del Prozac nei bambini: per motivi di mercato” · Categorie:Psicoanalisi · Tag:,

Juan Pundik denuncia che l’ Agenzia Europea del Medicamento basa le concessioni delle autorizzazioni su ricerche gestite dagli stessi fabbricanti del prodotto.

La Agenzia Europea del Medicamento ( EMEA, sigla inglese) ha autorizzato nel giugno 2006, l’amministrazione del Prozac a bambini e adolescenti minori di 18 anni. Da allora, la Plataforma Internacional contra la Medicalización de la Infancia, condotta da Juan Pundik, psicoanalista e presidente della Filium (Associazione per la Prevenzione del Maltrattamento dei bambini), lotta per disinnescare quel dettame. Ritengono che le reazioni avverse che il farmaco può causare nel caso dei minorenni sono abbastanza gravi da mettere in questione la validità scientifica dell’autorizzazione europea e denunciano che sia stato lo stesso laboratorio che produce il Prozac a provvedere le argomentazioni portate all’EMEA sulla basse dei risultati delle ricerche da loro stessi prodotte e che quindi sarebbero alla base dell’autorizzazione.

Come e perché nasce la Plataforma Internacional contra la Medicalización de la Infancia?
– Negli ultimi anni sono stati pubblicati molti studi che ci mettono al corrente sull’uso di antidepressivi che incrementano i livelli di serotonina costituendo una minaccia per la salute e la vita del paziente. Sono diversi mesi che la EMEA ha approvato l’utilizzo del Prozac nei bambini, senza tener conto di tali studi e considerando invece le domande del proprio fabbricante del prodotto, il quale ha visto nei minorenni un immenso mercato da esplorare. E’ qui che nasce la Plataforma, con lo scopo di denunciare questa aberrazione.

La Plataforma denuncia che per interessi economici dell’industria farmaceutica si stano somministrando antidepressivi ai bambini?
-Che si lasci ai Laboratori Farmaceutici la funzione di giudice nell’autorizzazione del prodotto, ci da un’idea del peso che l’ industria farmaceutica ha in questa faccenda. Non dico niente di nuovo se ricordo che, troppo spesso, il medico che prescrive un farmaco viene premiato con degli inviti a Congressi, con dei regali, etc… Ci sono numerose denunce contro tale tipo di corruzione.

Allora, possiamo davvero credere ciecamente ai medici?
-Il problema è che viviamo in una società che corre e non può fermarsi, l’ansia, lo stress e la depressione sono in crescita, la gente vuole drogarsi per affrontare questo ritmo. E’ la soluzione più facile. Ma questo è da interrogare in tutti i casi, sia negli adulti che nei bambini. La differenza si fonda nel fatto che l’adulto può deciderlo, i minorenni non hanno quel potere di decisione.

Quali possono essere le conseguenze della somministrazione del Prozac nei bambini?
-Gli effetti secondari del Prozac sono molti, lo indica il prospetto del prodotto stesso, vale a dire il proprio fabbricante. Agisce sulla serotonina e occorre tenere conto del fatto che i livelli di serotonina sono alla base di molteplici funzioni, non solo quella neuronale… influenzano la frequenza cardiaca, regolano la secrezione ormonale ipofisaria, di conseguenza la crescita e i livelli di estrogeni e progesterone. Non si sa niente riguardo agli effetti avversi che può provocare il Prozac… stiamo forse crescendo giganti? nani? Niente si sa eppure, si somministra allegramente… Mi sono accorto che si poteva protestare e l’ho fatto.

La sua denuncia ha raggiunto il Parlamento Europeo…
– Si, ho creato Plataforma, raccolte il numero sufficiente di firme e presentato l’allegato al presidente della Commissione Europea. Non ebbi risposta e quindi ho reiterato la presentazione per ben cinque volte. Allora mi informarono che la faccenda era stata delegata non ai responsabili della Sanità Pubblica e Difesa del consumatore, ma alla Unità di Prodotti Farmaceutici della Direzione Generale dell’Impresa e dell’Industria, il ché mi è sembrato il massimo… Di questo ho messo al corrente l’allora Presidente del Parlamento Europeo, che ha dato corso alla mia domanda, così che sono stato chiamato dalla Commissione.

E cos’ha risposto la Commissione Europea riguardo il suo allegato?
-Alcuni degli europarlamentari presenti hanno messo in questione la somministrazione degli antidepressivi nell’infanzia e nell’adolescenza, ma altri hanno difeso decisamente le bontà del Prozac, la fiducia nei laboratori, la responsabilità dei medici nel dover somministrarlo…

In conclusione…
– Sono intervenuto per aggiungere che sebbene l’ industria farmaceutica fornisca delle sostanze che proteggono la nostra salute, sono stati anche responsabili di aver generato dei mostri prodotti dal talidomide, delle morti in conseguenza della somministrazione del antinffiammatorio Vioxx, ora proibito, e di centinaia di medicamenti la cui autorizzazione è annualmente revocata a causa delle conseguenze la cui gravità si scopre solo tardivamente.
Il Presidente mi comunicò che mi ero ecceduto nel tempo ?, che ringraziava la mia presenza e che avrebbe mantenuto aperta la ricerca sollecitando una più ampia informazione al riguardo.

In ogni caso la lotta di Plataforma continua..
-Sí. Solo quando sono riuscito a protestare mi accorsi che esiste il diritto alla protesta, è così che penso di continuare fino dove occorre.

Juan Pundik, psicoanalista con più di 40 anni di esperienza, fondatore e direttore della Escuela Española de Psicoterapia y Psicoanálisis (1976), fondatore e presidente di FILIUM, Asociación para la Prevención del Maltrato al Niño (1977), e fondatore e presidente del Comité Ejecutivo de la Comisión Nacional del Día del Niño. E’ autore di numerosi libri, tra i quali “¿Qué es el psicoanalisis?”, “El niño hiperactivo” o “Prozac ¿si o no?”, tra gli altri. Attualmente dirige la Plataforma Internacional contra la Medicalización de la Infancia.

Traduzione di Laura Rizzo [Estratto da www.ampblog.com Illustrazione presente in www.asociacionitaca.com annesso Più informazione su www.filium.or]

20. Dicembre 2014 · Commenti disabilitati su La risposta al sintomo del bambino negli U.S.A. Intervista al Dott. Fernando Polack · Categorie:Psicoanalisi · Tag:,

Il quotidiano La Nacion ha pubblicato un’intervista realizzata a Parigi a Mikkel Borch-Jacobsen, che sta promovendo la diffusione del Libro Nero della Psicoanalisi in tutto il mondo. Il 20 settembre lo stesso quotidiano ha pubblicato, nella sua sezione dei lettori, una lettera del Dott. Fernando Polack, pediatra argentino residente negli Stati Uniti a risposta a quella nota. L’interesse che questa lettera ha suscitato è dato non soltanto dal suo contenuto intrinseco ma dal fatto che proviene da una persona che risiede negli Stati Uniti, che non è psicoanalista e che, per tanto, non può essere accusato di difendere interessi della categoria. E’ già stata distribuita dall’EOL, dall’ECF e dalla SLP. José Ioskyn, psicoanalista di La Plata, Argentina, ha preso contatto con l’autore e ha realizzato la seguente intervista:

José Ioskyn: per cominciare, potresti raccontarci come è avvenuto il tuo trasferimento negli Stati Uniti, le motivazioni, cosa ti aspettavi da quel viaggio?

Dr. Fernando Polack: mia moglie e io siamo andati negli USA nel 1993, approfittando di un’opportunità di formazione pediatrica sorta nel Michigan. Io mi ero laureato in medicina in Argentina e avevo molti dubbi riguardo alla possibilità d’intraprendere la carriera in infettologia pediatrica a Buenos Aires, perché percepivo che il focus della formazione professionale in Argentina era soprattutto mirato all’aspetto assistenziale. Siccome un infettologo pediatra deve avere un panorama più vasto riguardo alla biologia, alle scienze di base e all’epidemiologia, diciamo che ero scettico.

La formazione scientifica e medica a livello “organico” è indubbiamente straordinaria nei grandi centri degli Stati Uniti. Quello che colpisce in queste Università, come la John Hopkins, è la possibilità di partecipare – spesso solo leggendo i giornali, a volte come consulente o come agente diretto – ai processi che avvengono in altre parti del mondo, come l’influenza dei polli a Hong Kong, la SARS, o l’eliminazione del sarampione in alcune zone dell’Africa, e ancora riguardo a nuove scoperte nell’area delle scienze di base.

In questo senso, tutte le mie aspettative si sono realizzate. Questo paese è molto generoso e anche intelligente nel provvedere agli stranieri che vengono qua a proseguire i loro studi, offre loro enormi possibilità di sviluppo professionale. Non ricordo nessuna situazione in cui essere straniero ha giocato contro di me sotto quest’aspetto. Per gli espatriati che vivono la loro condizione come un’ascensione quasi etnica, inserirsi nel sistema connota un desiderio disperato e, nella maggior parte dei casi, diventa più facile. Ad esempio, a me sorprendeva molto trovare gente che, proveniente dall’Europa dell’Est, cambiava i propri cognomi, inglesizzandoli, che esponeva la bandiera americana nei loro giardini non appena potevano e, ovviamente, che adottava i costumi nordamericani con una devozione insolita. A volte diventa impossibile riuscire a trovare una persona del Centro America, specialmente quelli più umili, che ti parli in spagnolo. Poi ci sono altri gruppi, quelli che hanno, invece, un legame socioculturale molto forte con i loro paesi d’origine, un vincolo che non possono ignorare. Tra questi gruppi contiamo gli argentini.

J.I.: Nella tua nota al giornale La Nación tu fai riferimento alla particolare situazione di fare il padre in una società che descrivi bene. Potresti raccontarci la tua esperienza come padre lì, la tua impressione circa l’intervento dello stato sui bambini, attraverso la scuola, l’ospedale, ecc.?

F.P.: Non c’è dubbio, l’esperienza più difficile per gli argentini, che conosco ormai da dodici anni qua, è proprio quella di fare i padri. La differenza dei valori e delle abitudini mette a repentaglio le più salde convinzioni! Posso dire che sono fiero di essere riuscito ad aiutare ai miei figli, sostenendoli durante gli anni durissimi in cui ho vissuto a Maryland. Dico questo perché la cosa più facile è cedere, essere “convertito”, vedere i risultati immediati di questa manovra nell’accettazione sociale o scolare: passare dall’essere un discolo all’essere uno “sciocco” buono. Mi spiego, ho molti amici argentini i cui figli – bambini svelti, simpatici – hanno passato anni in scuole con educazione speciale perché non si comportavano “abbastanza bene” secondo il criterio delle scuole americane. Li ho sentiti perfino ringraziare la condizione della scuola speciale perché erano stanchi di correre all’asilo nido o alla scuola quando la maestra li chiamava disperata perché andassero a cercare i loro figli o per discutere riguardo al loro “disadattamento” al sistema. Questo è molto angosciante, perché quando la maestra ti guarda e ti sorride, ma non ti sente assolutamente, tu capisci che non è pronta, che non è minimamente preparata per intendere la paura di un bimbo nella sua prima settimana di scuola. Lì capisci che sei proprio messo male, e solo. C’è un sorriso impersonale che è terribile, che è una strategia, è nell’ingranaggio della cultura americana e serve loro ad affrontare qualsiasi “personalizzazione” della conversazione.

Nella mia esperienza negli Stati Uniti ho capito che ci si aspetta che il bambino si trasformi in adulto quando entra all’asilo nido, inizia lì una “carriera” che finisce a Harvard. Dai tre anni, nelle fasce più colte e progressiste, fino ad essere un “good citizen” nel resto del paese. Non ti dico i pomeriggi che ho passato nelle librerie suburbane….a cercare milestones di sviluppo psicomotorio nei libri “specializzati” che riempiono gli scaffali, per vedere se mio figlio più grande era “on track” – e questo benché la famiglia lo considerassero “un genio” – e non ero l’unico, decine di padri sotto pressione cadevano in simili angosce. Conosco gente che ha ingaggiato un “esperto” perché i loro bimbi di tre anni arrivassero ai diciotto raggiungendo le condizioni per competere per un posto a Harvard, Hopkins o Yale.

Ho degli amici che si sono avvalsi di un’istitutrice cinese, per le loro figlie di sei, quattro e due anni, oltre che portarle tutti i pomeriggi a un programma full immersion di lingua cinese alfine di prepararle per commerciare nel futuro con la Cina; un altro amico ha sequestrato la batteria a sua figlia, strumento con cui giocava la bimba, perché lei doveva esercitarsi con il violino (infatti, questo strumento è favorevolmente considerato nei colloqui d’ingresso all’università). Tutto questo non è uno scherzo, quando devi abitare in questa realtà. Il bambino è un recipiente vuoto che bisogna riempire d’informazioni. E’ questo il tuo dovere di padre o di madre. Poco importa se siano i nomi di 50 dinosauri o dei vulcani del mondo o le costellazioni stellari, questo è il nostro dovere alfine di garantire ai nostri figli il loro successo futuro. Un’ora persa a giocare è un’ora in meno d’informazione. Persino una canzone alla tivù deve fornire “dati”.

Non è facile avere una visione critica riguardo a questo modo di vita, quando tutti attorno a te lo praticano senza sosta e ti guardano come un pederasta perché sei stato un pomeriggio intero a seguire il calcio con tuo figlio alla tv. In ogni caso il tema è un altro. La carriera verso il successo, in questi primi anni, non si basa sul rendimento scolastico, ma sull’osservanza delle regole più severe di comportamento. La disciplina è tutto, nell’educazione elementare e pre-elementare americana. Le promozioni verso la prima elementare avvengono dopo aver sostenuto un colloquio in cui il bambino fa la sua figura nominando le lune di Giove o i vulcani dell’Asia; le lettere di raccomandazione (delle maestre d’asilo) a busta chiusa fanno il resto. Poi la scuola pubblica un ranking – cosa per la quale vanno matti – di bambini di sei anni. Quello che vince è un winner, quello che perde è un loser. Ma, anzitutto, un loser sa già che le cose sono così, perché “questo è il sistema che ci ha portato ad essere il migliore paese del mondo”. A me rattristava molto vedere l’angoscia con cui le madri cercavano di “modellare” i loro figli per soddisfare quell’aspettativa. Non c’è cosa più difficile che l’assolutismo morale che vige nell’educazione americana nei primi anni di scuola. E questo in particolare per noi argentini, che proveniamo da una concezione molto cinica della morale concepita in quei termini.

Per risponderti, ti dirò una cosa ancora riguardo al ruolo dello Stato. Penso che questa concezione di vita tagli verticalmente la società americana, ritengo che oggi lo Stato non abbia più bisogno di esercitare alcun tipo d’influenza in questo senso. Anzi, non penso che ciò sia né migliorato né peggiorato, in accordo con le diverse amministrazioni, perché, per l’appunto, è costitutivo riguardo alla dinamica sociale, quindi lo portano addosso, sia il progressista della riviera est, sia il conservatore del profondo sud. E’ quasi come immaginare che da noi, con il mutare dei governi possa cambiare l’uso dell’irriverenza, il doppio senso o l’ironia.

J.I.: Come pediatra che lavora negli Stati Uniti, che tipo di sintomi sono più frequenti nell’interfase pediatria-psichiatria infantile? Quali sono i disturbi che meritano l’invio ad uno specialista?

F.P.: Noi abbiamo la fortuna di ricevere le consulenze da aree molto vaste del Paese. Siccome la Johns Hopkins ha un enorme prestigio, esiste sempre l’aspettativa di trovare lì la diagnosi che magari è sfuggita prima agli altri medici. Ciò significa che chi arriva alla nostra clinica ha già “superato” molti controlli. Detto questo, si potrebbe pensare che non c’è cosa più interessante che praticare qui, ma questo è vero solo in parte. Ritengo che il cinquanta per cento dei pazienti pediatrici che trovo nella clinica di infettologia abbia come diagnosi di base dei loro sintomi una depressione.

J.I.: Allora, quale sarebbe l’orientamento o la risposta sociale al sintomo del bambino?

F.P: Ogni problema psichico è uno stigma tale per cui i genitori preferiscono qualsiasi altra etiologia, organica, oncologica, infettiva.. tutto, ma non uscire dalla visita con una diagnosi di depressione. Questo mi ha recato non pochi problemi, sono stato persino sgridato perché mi rifiutavo di fare quelle diagnosi, d’altronde inesistenti, cancro, encefaliti virali – che distruggono il cervello – malattia di Lyme – una malattia batterica che spesso serve come sacco di raccolta di diagnosi per gente con un qualche tipo di nevrosi – sino ad altri tentativi disperati, da parte delle famiglie, per evitare la cosa più temuta. Questo si complica sempre di più perché la maggior parte dei medici condivide le apprensioni dei pazienti, perciò quello che sembra pazzo quasi sempre è uno.

Un esempio molto rivelatore è stato quello della clinica dell’AIDS pediatrico: ci sono stati più di duecento pazienti pediatrici attivi durante la decade degli anni novanta, c’era ancora una mortalità notevole. Bisogna ricordare che questi bambini sono quasi tutti orfani di madre oppure la perdono prima di finire il trattamento in clinica. Non hanno padre – o c’è l’hanno in carcere – e vivono con lo stigma equivalente alla lebbra nei secoli passati – al punto che non possono rivelare a nessuno del quartiere in cui vivono la loro diagnosi. Tuttavia, il classico problema era quello di convincere il dipartimento di psichiatria a visitare tali bambini.

Il solito accadeva che arrivavano e, di fronte al bambino angosciato e aggressivo, facessero la diagnosi di “psicosi in AIDS”, mentre al depresso moribondo facevano quella di “demenza in AIDS”, al che seguiva la prescrizione di qualche farmaco e arrivederci. Queste diagnosi irreversibili eliminavano l’eventuale beneficio di ogni intervento terapeutico e, dato che questi spesso sarebbero stati monumentali – viste le condizioni sociali, famigliari e finanziarie di questi bambini –, cominciare a discutere se valeva o meno la pena di andare a visitarli diventava un’impresa impossibile. Senza dimenticare che poca gente – poca a livello dell’ambito di salute e meno ancora a livello generale – considera che ci sia un qualche beneficio nelle terapie, mentre la stragrande maggioranza è convinta che tutto dipenda dalla volontà.

Dato che l’ingresso della psicoanalisi negli Stati Uniti è molto difficile, chi ha interesse ad analizzarsi o a portare il figlio in terapia, ha grandi possibilità di finire nel consultorio di una assistente sociale che applica un approccio direttivo ad ogni tipo di problema. Ricordo quando iniziai a lavorare in pediatria nel Michigan, negli ambulatori abbiamo visitato una ragazzina con una paralisi isterica. Io ero meravigliato e chiamai il supervisore, ma non riuscivo a capacitarmi quando egli ha richiesto un chinesiterapista. Ricordo di avergli chiesto cosa avrebbe fatto se il sintomo si spostava e egli, parole testuali, mi rispose sorridente: “…andrà dall’oculista!”

J.I.: In relazione a quello che dici riguardo a questa cultura, cosa ci si aspetta dal bambino? Riguardo al suo comportamento, al suo sviluppo, a che cosa si presuppone che debba essere preparato?

F.P.: Dal bambino ci si aspetta disciplina nella società e successo professionale ed economico a livello famigliare. Ma uno dei problemi più preoccupanti negli USA è l’immensa, desolante solitudine in cui tutti vivono. Personalmente ho conosciuto quattro persone che hanno finito per suicidarsi o che hanno tentato il suicidio, mentre non ne avevo mai visto una in venticinque anni di vita in Argentina. Il problema – faccio riferimento alla lettera pubblicata – non è solo che la nonna venga a casa dall’altra parte del paese una sola volta l’anno, ma che alla nonna non importa nulla.

Ho un collega molto bravo che ha contratto la febbre gialla in uno degli ultimi viaggi in Africa. Quando arrivò in ospedale, quasi moribondo, le cose non sono migliorate. Solo tre persone –incluso me e un guatemalteco – sono andate ad accompagnare la moglie in terapia intensiva. Il nostro capo allora, che lo aveva personalmente inviato in Zambia, era troppo occupata nel suo ufficio e non ha potuto percorrere i pochi metri che la separavano dall’unità in cui si trovava l’area di terapia intensiva. Questo che a noi sembra orribile, lì, però, è una situazione del tutto normale. Persino la moglie, che è pure infettologa, non ha voluto chiamare i suoceri perché “so molto bene ciò che succede, ma oggi è il giorno che i genitori trascorrono con la figlia maggiore. Quindi non posso intromettermi chiamandoli. Se dovesse succedere qualcosa, arriveranno domani”. Dimmi se hai ancora voglia di ammalarti…

Diciamo che il nordamericano si realizza soprattutto attraverso i suoi successi professionali. Questi si riflettono poi in acquisizioni materiali, prestigio sociale e comfort. Non che questo mi sembri male, anche se, come tutto qua, questo è anche molto superficiale. Diciamolo: qui tutti sono molto soli. Un mio amico li chiama “i re tristi”. L’americano mediamente istruito crede assolutamente alla parola detta. Intendo dire che, se una persona è piena di odio nei confronti di un’altra, ma riesce a dirle “I love you” entrambi credono all’esistenza di quell’amore. Questo è legato a quello che chiamano il “transformational vocabulary”. E’ questo un tema affascinante, con il quale si insegna ai professionisti e ai dirigenti a sostituire certe parole con altre “meno cattive”. Ad esempio, uno non è mai arrabbiato, bensì è perturbato.

Arrabbiato non va bene…Uno non è mai disgustato, ma confuso. Anche disgustato non va bene, è una cattiva parola. Con un atteggiamento positivo tutto si sistema. Mio fratello è dentista a Washington DC e noi ci facevamo grosse risate leggendo le istruzioni scritte fornitegli dal suo “motivatore professionale” al lavoro. Per cui, si capisce che non c’era nessun posto per ridere al lavoro. In queste sedute confessionali tra dentisti, qualche direttore dava testimonianza delle sue colpe e poi tutti cantavano una canzone che ricordo a memoria “Mi alzo il mattino col sole sul volto. I miei bisogni sono metaforici e il mondo è un posto felice”. Certo, a mio fratello non faceva tanto ridere quando era immerso in quella dinamica assurda e aveva bisogno del lavoro perché era appena arrivato in città. Questi “motivatori” sono gli psicoanalisti dei dirigenti di successo negli Stati Uniti. Penso che non serva aggiungere altro.

J.I.: Una questione a proposito dell’imbarazzo di ascoltare l’altro – ne facevi menzione nella tua nota – sembrerebbe, leggendo le tue parole, che esista un profondo rifiuto riguardo al malessere del prossimo, al disagio che bisogna eliminare dal contatto intersoggettivo. I farmaci aiuterebbero in questo, spersonalizzando o comunque mediando la relazione con il malessere, levandolo dai rapporti tra le persone?

F.P.: Oltre alle orde di bambini a cui viene somministrata la ritalina – teoricamente per l’ADD, ma mille volte per problemi famigliari, per maestre nevrotiche, per conflitti scolastici, per neurologi che prescrivono dei farmaci non si sa bene perché – non saprei dire quanti adulti ricevano farmaci e quanti no. Mi riferivo piuttosto a una caratteristica molto forte e diffusa negli USA. Ritengo che questo Paese sia al cento per cento protestante. Gli ebrei, come anche i cattolici, sono protestanti, persino la seconda generazione di orientali diventa protestante e tanto più se si ha necessità di essere accettati, indipendentemente da quale sia l’origine religiosa. Il protestantesimo è molto severo. Non ha il margine che, invece, altre religioni hanno; ha inoltre una profonda radice moralista. Nel protestantesimo non si gioca né si scherza, quindi, neanche negli Stati Uniti. Ci ho messo dieci anni per impararlo.

In questo senso, ogni espressione di soggettività diventa scomoda. Non si discute mai di politica, non si discute mai di nessuna cosa personale, non si chiede niente che riguardi qualcosa del privato. Alzare la voce è antigienico. Il contatto fisico è temuto. In effetti, i bambini argentini spesso ricevono la diagnosi direttiva di “sensoriors”, vale a dire di bambini che hanno bisogno di troppi stimoli tattili, visto che abbracciano i loro compagni, i genitori e a volte persino le maestre. Questo va trattato, da ciò si guarisce. Bisogna comprare una spazzola a pelo grosso e spazzolare in senso longitudinale le loro gambe. Ecco come, chi voglia essere all’avanguardia delle scienze psichiche, dovrà avere la sua spazzola. Non è facile resistere alla pressione scolastica di “spazzolare” i bambini, giacché rifiutarsi di farlo, con la stupida scusa del “noi in Argentina ci abbracciamo molto”, significherebbe ricevere il commento scontato del tipo “E che me ne frega: qui tuo figlio è un “sensorior” e, se non volete avere problemi con noi a scuola, acquista la spazzola, disadattato”.

J.I.: Per finire, vorrei chiederti se hai fatto un’analisi in Argentina. In questo caso, qual è stata la tua esperienza come analizzante o paziente? Ti ha aiutato – concretamente – la tua analisi?

F.P.: Senz’altro mi ha aiutato, e molto, la mia attuale analisi in Argentina – io viaggio molto per motivi di lavoro – e questo mi ha mantenuto sano negli Stati Uniti. In Argentina ho fatto un’analisi per parecchi anni, anche negli Stati Uniti l’ho proseguita con un analista argentino dal quale andavo anche se dovevo guidare per 60 km ogni venerdì pomeriggio. Qualcuno che non sta nella stessa barca ti deve rassicurare del fatto che non sei un pazzo e che le tue decisioni, per quanto lì sembrino strambe, hanno la loro logica.

Ci sono molti bambini argentini che sono in analisi con terapeuti argentini coi quali parlano loro al telefono dagli USA. Questo è abbastanza comune e spesso è tanto più importante perché sono lontani. Sono tantissimi le mail che io stesso ho ricevuto negli ultimi giorni, scritte da argentini sconosciuti che abitano negli USA che mi raccontano brevemente esperienze molto simili. La lettera che ho scirtto è nata perché, quando ho letto quella nota, al lavoro non ce l’ho più fatta a concentrarmi. Pensavo che sebbene sia stato costretto a giocare con le loro regole a “casa loro”, non potevo consentire che, allegramente, essi pensassero di imporle anche “a casa mia”. Così ho scritto e spedito la lettera di quattro pagine che è finita condensata in quelle righe. L’ironia è che il grande interesse suscitato poi in Argentina mi avrebbe causato una condanna “morale”, se fosse stata pubblicata su un giornale di Baltimora. José Ioskyn

Traduzione: Laura Rizzo – [Nota distribuita dalla Associazione Mondiale di Psicoanalisi Lista UQBAR translation. Archivi 2008]

20. Dicembre 2014 · Commenti disabilitati su I sintomi e i disturbi possono trasformarsi in invenzioni · Categorie:Psicoanalisi · Tag:, ,

Ci sono tanti nomi per dire le forme del disagio che toccano gli esseri umani. Sono nomi che servono a classificare, a mettere in ordine i disturbi e i sintomi. E’ una maniera per facilitare l’orientamento nei sentieri del malessere e della sofferenza che affliggono donne, uomini, adolescenti e bambini a un certo momento della vita e per cause apparentemente inspiegabili. Per questo diciamo: bulimia, attacchi di panico, depressione, conflittualità della famiglia, disturbi del linguaggio e così via applicando una serie di etichette.

Sembra che ogni epoca della storia abbia i suoi disturbi e i suoi sintomi, in quanto effetti della società. Essi, dunque appaiono nuovi e particolari in ogni epoca, anche se a molti non si era semplicemente dato un nome o si presentavano con sfumature diverse da quelle di oggi.
Al Cortile, anche noi, come si fa generalmente, li chiamiamo con dei nomi ma vogliamo evidenziare, al tempo stesso, che dietro i nomi, dietro le etichette si nasconde la particolarità di ciascun essere parlante, anche di coloro che apparentemente non parlano, come succede a certi bambini, per esempio, che non parlano o parlano poco o dicono cose sconnesse in una lingua strana e incomprensibile.

Che cosa vogliamo dire?
Vogliamo dire che dietro ogni etichetta che definisce il disturbo o il sintomo, si nasconde qualcosa di unico, qualcosa che appartiene solo a quella persona e non a un’altra, qualcosa che sfugge all’etichetta. L’essere umano ha il suo modo particolare di usare ciò che gli fa male e lo fa soffrire. L’uso che ne fa, paradossalmente, ha qualcosa d’inventivo: gli serve a stare al mondo e ad avere rapporti con gli altri e, dunque, per certi versi gli fa anche bene. Sembra un paradosso che quello che fa soffrire faccia anche bene. La bulimia, per esempio, non è la stessa per tutti e non serve a tutti allo stesso scopo. L’attacco di panico di Tizio non è lo stesso di Caio. La depressione non significa lo stesso per tutti, e così via. Capita che il sintomo, che bene o male, nel bene e nel male, funzionava per fare stare la persona al mondo anche al prezzo di una certa sofferenza, improvvisamente si presenti come insopportabile, ovvero il male supera il bene, non funziona più come prima, di qui la richiesta di aiuto, di ascolto, a volte urgente.

I sintomi, dunque, sono importanti e pertanto non vanno né cancellati né guariti di corsa, come spesso si pensa che debba essere, ma vanno lasciati parlare e ascoltati.

Guarirli di corsa sarebbe come mettere un cerotto su una ferita sporca di cui non conosciamo l’origine o mettere un tappo là dove l’acqua deborderà da un’altra parte. Il sintomo non ascoltato, non dipanato, come si dipana una matassa, non potrà rivelare la sua funzione né la ragione per cui una persona, seppur sofferente, non lo molla. Il sintomo ascoltato, invece, potrà rivelare qualcosa di cui la persona stessa, parlandone, si sorprenderà scoprendo di non sapere di sapere, di sapere più di quanto non pensasse. Si sorprenderà, per esempio, di non essere solo una vittima del suo stesso sintomo ma di esserne addirittura complice. Potrà incominciare a non dare tutta la colpa agli altri, assumendosi le proprie responsabilità rispetto a ciò di cui si lamenta. Dipanarlo, dunque, aiuta a scoprire le ragioni della sofferenza che non apparivano alla luce del sole, e a recuperare nel sintomo quella parte senza senso di cui fare tesoro, da cui trarre oro. Ciò comporta come conseguenza che la vita diventi più vivibile, che si trovino modi meno dolorosi e più creativi di stare al mondo, di amare, di lavorare, di stare con gli amici, con i figli, di affrontare la solitudine, di rapportarsi alla sessualità, e così via, ognuno a modo suo.

Il sintomo, da semplice sofferenza rivela, finalmente, la sua faccia d’invenzione e creativa.