07. Luglio 2016 · Commenti disabilitati su L’ascolto · Categorie:Uncategorized

La psicoanalisi opera con la parola. A partire dall’insegnamento della psicoanalisi, con Sigmund Freud e Jacques Lacan, l’ascolto acquista uno statuto speciale: fa posto alla parola, che non si riduce a semplice chiacchiera, e fa posto anche al silenzio, un silenzio che parla a chi ascoltando non si affretta a ricoprire di senso il discorso di chi soffre. E’ importante che chi ascolta sia formato, attraverso la propria esperienza analitica, per poter cogliere senza pregiudizio le sfumature, i dettagli minimi e le differenze che dicono la realtà singolare di ciascun soggetto.

Chi ascolta al Cortile è formato secondo l’orientamento e la clinica di Lacan, anche quando non fa della psicoanalisi in senso proprio, ma della “psicoanalisi applicata alla terapeutica”. Al Cortile crediamo nell’inconscio, non in una teoria dell’inconscio che Lacan ha definito “buffonesca” e che, per fare un esempio, ha condotto a degli abusi da parte degli stessi psicoanalisti quando la applicavano all’interpretazione dell’arte o della vita dell’artista.

Credere nell’inconscio vuole dire credere in quello che dell’inconscio può essere colto nella pratica della psicoanalisi e non al di fuori di questa pratica. Chi opera facendo della psicoanalisi applicata, grazie alla propria formazione analitica ha fatto emergere il sapere inconscio nascosto, un sapere che non si sa di sapere perché sfugge al linguaggio e si situa tra le righe del discorso, ossia nei lapsus, nei sogni, negli atti mancati, e può così occupare al meglio il posto da cui ascoltare le parole di chi soffre e cerca aiuto.

Le parole, in presa con il corpo, coniugano il piacere, il dolore, il misto di piacere e di dolore per il quale l’essere umano compie cose senza senso, anche contro se stesso e contro gli altri, perché, come spesso sentiamo dire: “qualcosa è più forte di me”. Anche presso chi dovrebbe conferire peso e dignità alla parola, non sempre essa giunge a farsi atto, atto che sottende la fede e l’impegno, la responsabilità di chi l’ha pronunciata. La psicoanalisi, invece, crede in questa responsabilità, per questo ascoltare assume uno statuto così importante. Lacan nel 1970, rivolto agli studenti dell’Università di Vincennes: curiosi e provocatori, sé dicenti rivoluzionari, futuri professionisti e intellettuali, persino futuri psicoanalisti o operatori nel campo della salute mentale, insomma giovani d’ogni risma e talento che avrebbero fatto la storia di oggi, diceva che c’era un notevole vantaggio “all’aver vergogna” e aggiungeva: “è questo che la psicoanalisi scopre”. Che cosa intendeva? Intendeva avvertire questi giovani della responsabilità dell’essere umano rispetto a un discorso che contempla anche un certo fallimento, il fallimento in cui incorre sempre chi parla, il fallimento che, come dimostrano la clinica e la vita di donne, uomini e bambini, consiste nell’impossibilità della parola a dire tutto, a simbolizzare tutto. Qualcosa che riguarda la pulsione rimane fuori dal linguaggio e ce ne accorgiamo negli inciampi della parola, o quando il corpo fa dei sintomi o ricerca delle modalità di soddisfazione in contrasto con il piacere e persino con la vita stessa. Il soggetto è responsabile nei confronti di quel che il linguaggio non riesce a dire, dire tutto, e che Lacan ha chiamato “reale”, o “godimento impossibile”. La vergogna è il segnale di un reale, di un godimento impossibile di cui il soggetto deve farsi carico.

Si tratta, dunque, di una responsabilità etica per la psicoanalisi, dove la vergogna è un effetto che, diceva Lacan, “si ottiene raramente”. Al posto della morale – che spartisce le cose tra il Bene e il Male -, Lacan ha posto l’etica invitando al ben dire, che significa affidarsi alla catena inconscia per avvicinare il più possibile il punto in cui si arriva a mettere a fuoco il godimento impossibile come causa inconscia della propria sofferenza: una causa interna al soggetto, fatta della stessa pasta di quel che lo muove, di quel che lo fa desiderare. Al Cortile ascoltiamo quel che appare senza senso, fuori senso, alleggeriti dalla preoccupazione di ricoprire tutto con il senso. E’ così che chi soffre può trovare la propria implicazione soggettiva rispetto a ciò di cui si lamenta, o addirittura formulare una domanda che non è più semplicemente di aiuto e che non vuole la risposta dall’altro, ma può trasformarsi, a volte e non necessariamente, in domanda di analisi. Al Cortile si cerca di accompagnare la persona che soffre a intravedere come, implicandosi nella propria responsabilità rispetto a come reagisce o ha reagito al trauma, alla sofferenza, a ciò che nella vita si è messo di traverso, possa trovare la propria e singolare soluzione a partire da ciò che non funziona, soluzione che rende più vivibile, meno dannoso o doloroso di quanto non sia stato per sé e per gli altri, il proprio sintomo.

Céline Menghi

 

Commenti chiusi.